QUANDO IL CIELO SARA' PRONTO di Sergio Pedemonte

Davanti alla chiesa di Santo Stefano erano seduti alcuni uomini avvolti nei mantelli di lana pesante. Jacobis de Priarolo diede inizio alla riunione e chiese a Obertus Buculellus:

“Sei sempre deciso a spostarti di là dal torrente?”.

“Sì” rispose Obertus e nella voce non vi era rimpianto, ma determinazione. “Capiamo la tua ansia, ma sei in tempo a pensarci ancora qualche giorno” accennò Benedictus de Piano.

“No. Devo andare al più presto. Ho ottenuto il consenso dal Dominus per quello che sta succedendo in quei luoghi. Devo costruirmi la capanna prima della neve. Inoltre finché il torrente è basso posso portarmi i pochi attrezzi che mi servono e voi riuscirete a darmi una mano, se mi serve”. “Come vuoi” risposero gli altri e ognuno si chiuse nei suoi pensieri mentre il prete Tonsus iniziava le preghiere della sera.

La prima notte oltre il torrente non fu facile: era abituato a dormire con i fratelli e le sorelle, il padre, un vecchio zio. Adesso era con due capre, qualche gallina e un asino, in un silenzio rotto dal canto della civetta e dal vento. I pensieri si rincorrevano: la distanza tra lui e la sua comunità era poca, ma nel periodo invernale il passaggio del fiume, nei pressi del Rio dei Cani, sarebbe stato difficoltoso e poi c’era la probabilità che qualche viaggiatore, saputo che era solo, ne approfittasse per prendersi quel poco che aveva o semplicemente per scannare una capra. Si era deciso a spostarsi sull’altro lato della valle perché dopo che i Genovesi avevano conquistato il castello di Petrambixara i traffici vi erano aumentati: la vecchia strada che passava per Insula, Piano, Priarolo, Meleta, Variana aveva visto diminuire il passaggio di viandanti e merci. In più la popolazione di San Lazzà, Sciorba, Piano del Castello, Prodominus, Casa dei Cani, Baxixetti, Pianassi era aumentata troppo, compresa quella della sua famiglia: continue erano le liti anche tra parenti per lo sconfinamento di animali o per la raccolta di fieno e legna. I vecchi sconsigliavano il lato sinistro della valle perché in caso di necessità sarebbe stato difficile raggiungere la piccola casa- torre di Pian del Castello o il rifugio ben più sicuro di Monte, soprattutto con il fiume in piena.

Raccontavano sempre che più in basso della Chiesa di S. Stefano, sui campi fertili, avevano abitato i loro progenitori in tempi antichissimi: si trovavano ancora pietre lavorate che non erano di queste zone, punte di freccia e cocci di vasi ruvidi addirittura meno pregiati dei pochi che avevano loro.

Si sapeva che il Comune di Dertona mal sopportava quell’ingerenza della grande città portuale nei suoi territori. In più vi era meno sole con la conseguente maggiore umidità e minore rendita dei raccolti. Ormai a memoria d’uomo quei boschi erano disabitati e servivano solo per la caccia o per l’alpeggio in estate sulla collina sovrastante. Egli, tra l’altro, era un abile costruttore di ceste in vimini e sperava di ottenere un reddito saltuario dal traffico di carovane che si stava spostando da quella parte. In più, in località Campo, di fronte al passaggio del torrente Screia, si era insediato un monaco con alcuni aiutanti. Avevano dissodato una parte di foresta, si erano costruiti alcuni ripari e sembravano attendere qualcuno o qualcosa. Di tutto questo prete Tonsus non era troppo contento, anzi, appena saputo del fatto era corso a Rocca de’ Piè, sede della Pieve, per riferire a prete Ubaldus. Ne era tornato con la notizia che l’insediamento era già conosciuto dalla Diocesi di Dertona.

La piccola capanna che Obertus si era innalzato aveva il tetto in paglia e le pareti intrecciate di legno e fango: era adiacente ad una sorgente posta poco più in alto del sito scelto dal monaco. Vicino vi era la strada, che molti chiamavano Chostumia e che i Genovesi avevano riadattato, mentre la zona era ricca di ghiande per i maiali selvatici. Da lì si vedevano, oltre lo Screia, le capanne sparse intorno a Santo Stefano e poteva udire i suoi fratelli più piccoli portare al pascolo gli animali.

Era riuscito a parlare con gli aiutanti del monaco, che seppe si chiamava Frà Johannes e veniva dalla Provenza. Il più giovane di questi gli raccontava che loro erano originari dalla Val di Susa e che altri confratelli stavano facendo lo stesso lavoro in zone vicine. Questi non erano i monaci di Tiglietus: erano di una famiglia diversa, più antica, e si chiamavano Benedettini come quelli che erano a Percipiano. Dove avevano disboscato erano riusciti ad ottenere uno spiazzo abbastanza grande perché avevano intenzione di costruire una piccola chiesa, un’abitazione per sei o sette aiutanti e le celle per frati. Vide che per prima cosa scavarono un pozzo e trovarono l’acqua a poca profondità, poi iniziarono le stalle per i loro animali e infine alzarono delle specie di capanne per passarvi l’inverno. Gli edifici che volevano costruire erano in pietra e calce e per lui sarebbe stata la prima volta vedere una simile opera: solo le torri dei due castelli vicini e la chiesa di Santo Stefano erano in muratura, tutto il resto per miglia e miglia era in legno e paglia. Col proseguire dell’autunno il traffico aumentò, ormai vedeva ogni giorno qualcuno e riusciva a vendere le sue ceste o scambiarle con del sale: una volta addirittura aveva ottenuto da un altissimo Teutone un pezzo di coperta con cui sostituì la sua maglia ormai logora dagli anni. Tutti questi viandanti si fermavano da Frà Johannes e qualcuno sembrava portargli delle notizie: soprattutto quelli che andavano verso Janua a volte gli lasciavano sementi o attrezzi agricoli oppure pergamene. Il monaco non parlava bene la loro lingua ed era rispettoso di tutti: aveva chiesto a Obertus di fargli dei graticci in cambio di orzo e lo accoglieva alle riunioni che teneva con i suoi aiutanti. Ormai ascoltava la Messa e i Vespri lì a Campo senza dover andare fino a Santo Stefano, con la conseguenza che prete Tonsus si era offeso e cercava di metterlo in cattiva luce con i suoi amici. Durante l’inverno, quando era possibile, aiutava Frà Johannes e i suoi a continuare il disboscamento, tanto che a un certo punto venne spontaneo chiamare il luogo Campolungo: ormai la superficie libera era quasi pari a quella del Piano del Castello. Come avrebbero potuto dissodarla? Sarebbero arrivati nuovi animali e attrezzi? Frà Johannes insisteva a dire che in pochi anni sarebbero state costruite delle abitazioni in pietra, tutte uguali una vicina all’altra lungo la via Chostumia, per la popolazione sparsa nelle numerose capanne poste in disordine nelle poche radure tra i boschi; era successo così nel nuovo borgo di Runcandum, tanto che i suoi abitanti avevano abbandonato il vicino villaggio che ora chiamavano Villavetula. In più affermava che il raccolto sarebbe stato il doppio di quello che ottenevano sulla destra del torrente imparando poche e semplici tecniche che avrebbero insegnato i suoi confratelli una volta arrivati. Parlava anche di un ponte, ma Obertus faceva fatica a pensare ad un’opera così ardita, tanto alta e lunga da collegare le due sponde dello Screia. Certo, poco più a monte le ripide pareti del torrente si avvicinavano molto tra loro, ma l’impresa sembrava comunque impossibile. Non si era pentito della scelta di vivere a Campolungo con gli stranieri. Aveva imparato a fare la pulmenta, una zuppa in cui c’erano oltre alle solite fave, lenticchie o piselli anche del grasso di maiale e il sale; aveva assaggiato il vino del monaco mischiato ad acqua ed aveva conosciuto il frumento, lui che aveva solo mangiato, fino ad allora, avena e segale. I giorni passavano e Obertus divenne sempre più indispensabile per Frà Johannes: gli aveva chiesto di mostrargli i confini dei pascoli comuni, gli chiedeva dove poteva trovare certi tipi di pietre, lo utilizzava come mediatore per alcuni prodotti che comprava dagli abitanti di Santo Stefano ma, soprattutto voleva sapere come innestavano gli alberi da frutto, come seminavano, i periodi di rotazione delle colture, se usavano concimi, come facevano la calce, se allevavano le api. Ormai era diventato il suo principale collaboratore nei rapporti con gli abitanti e con prete Tonsus, così che molte volte nelle sere di neve e freddo si attardava con lui nella modesta celletta a parlare di cose che non aveva mai sentito da altri.

Frà Johannes era un bravissimo organizzatore: aveva già fondato due stazioni benedettine nella terra dove era nato e contava di rendere Campolungo una mansio ad uso dei pellegrini che andavano a Roma. Si sarebbe retta sulle donazioni dei ricchi Signori, sulle rendite delle coltivazioni e su quanto i mercanti avrebbero pagato per avere sosta e fieno o paglia.

A giorni, affermava, sarebbe anche arrivato un maestro muratore (lo chiamava Antelamo) insieme ad artigiani del legno e del cuoio; poi vagheggiava di un borgo di case tutte uguali (verso Runcandum, dove c’era più ombra così da lasciare i campi coltivati al sole e dove sarebbe sorto il ponte), con una piazza e gli abitanti che riuscivano a sfamarsi con le provviste accumulate l’anno precedente. Pensava addirittura di insegnare ai bambini a leggere le preghiere ed a scrivere il proprio nome. Si stupiva che nessuno sapesse il giorno in cui era nato e rideva al pensiero che per battezzare un neonato si dovesse andare a Rocca de’ Piè o a Linverno. Inoltre non gli piaceva il modo come viveva prete Tonsus, con una concubina ed alcuni figli, né che invece di fornire aiuto ai propri paesani era lui a vivere sulle loro spalle riscuotendo decime ed elemosine. Aveva visitato la chiesa di Santo Stefano ed era inorridito nel vederne il pessimo stato in cui era ridotta con le finestre senza impannate, la porta scardinata, l’altare in legno che minacciava rovina, il tetto ormai da rifare.

Un nuovo mondo si avvicinava, gli diceva ridendo, e le avanguardie erano i Benedettini. Poi gli spiegava che la religione non è solo comandamenti e lettura dei Vangeli. È anche stile di vita, studio, lavoro, preghiera. Frà Johannes e i suoi confratelli rispettavano quanto disposto dal loro fondatore San Benedetto, alzandosi nel cuore della notte per pregare o mangiando tutti insieme mentre uno di loro leggeva i Salmi. Avevano una veste semplice mentre le loro case e i luoghi di culto rispondevano a dei canoni simili in tutto il mondo. A meridione della chiesa doveva esserci un cortile con il pozzo e le celle dei monaci, la mensa sarebbe stata divisa tra i frati e i novizi. I pellegrini di rango avrebbero mangiato con l’abate e la vita comune sarebbe riuscita ad ottenere risultati straordinari, come dimostrava la proliferazione di dipendenze da quel San Michele della Chiusa da cui era partito Frà Johannes per venire a Campo.

Però la parte più interessante per Obertus era quella dedicata alla costruzione della nuova chiesa, anche lei dedicata a San Michele: Frà Johannes sosteneva che doveva essere innalzata secondo scrupolose consuetudini e rituali, seguendo il corso dei cieli. La fondazione poteva avvenire solo in un giorno ben preciso, vicino a quello che aveva uguali la luce e il buio in primavera, mentre le dimensioni dovevano seguire giuste regole che avrebbero garantito il successo della fatica. Per il nostro monaco entrare in chiesa e arrivare sino all’altare doveva essere un percorso che dai piedi della Croce ti portava verso oriente simboleggiando l’ascesa di Cristo al Cielo. La struttura che ne sarebbe risultata era cioè un mezzo per accorciare la distanza tra l’Uomo e Dio. Nulla doveva essere lasciato all’improvvisazione del costruttore: tutto era già scritto nella Geometria e nell’Astronomia. Frà Johannes vedeva anche un’analogia tra le proporzioni del corpo umano e l’edificio sacro alla Fede: menzionava sempre un certo Vitruvio che aveva sostenuto questa idea per i templi antichi. Obertus chiedeva:

“Ma come fai a sapere che la tua chiesa starà in piedi? Non pretendi troppo da questo Antelamo volendo un edificio grande il doppio di Santo Stefano?”. “No” rispondeva Frà Johannes “Fisseremo l’asse della nostra chiesa quando il Cielo sarà pronto e da lì tracceremo la lunghezza. Poi la divideremo per un Numero d’Oro e otterremo la sua larghezza e così via per ricavare le altre dimensioni. L’esperienza ci insegna che in questo modo l’edificio non crolla”.

“Ma non hai detto che questa costruzione dovrà anche rappresentare il corpo di Gesù sulla Croce? Come fai a fare tutte queste cose in una sola volta?”. Il monaco sorrideva ed era fiero delle domande di quel ragazzo che non aveva mai letto un libro ed aveva osservato le stelle e la Luna solo per capire in che punto della notte era.

“Imiteremo Cristo sulla Croce facendo l’abside della chiesa spostato rispetto all’asse della navata principale: esso rappresenterà il capo reclinato del nostro Salvatore al momento della Sua morte. Vedi, Obertus, noi architetti di Dio abbiamo pochi modi per lasciare le nostre idee a chi ci seguirà: tra cento anni tutti entreranno nella nostra chiesa e saranno rapiti dal senso di sacro che la sua luce emana, il silenzio farà riflettere le persone inginocchiate e quando, in certe occasioni, il sacerdote eleverà l’Eucarestia, un raggio di Sole lo illuminerà ricreando il fenomeno della Resurrezione. Molti non capiranno o non conosceranno i miei calcoli per poter arrivare a questo, ma tutti sapranno che questa chiesa non è per gli uomini ma per le loro anime. Se io ti rivelassi qual è il Numero d’Oro o lo lasciassi scritto su pergamena non servirebbe a nulla: dopo poco tempo andrebbe perso perché così è la vita. Ma la nostra chiesa rimarrà a testimonianza di cose che sono scritte nell’Universo e che possono essere intese dai soli che lo vogliano”.

Quando ritornava nella capanna Obertus ripensava a tutto ciò che aveva sentito e man mano si convinceva che stava per assistere ad un evento eccezionale: Frà Johannes gli stava trasmettendo dei valori per lui impensabili fino a pochi mesi prima. Si sentiva più ricco, più appagato e più curioso, l’avrebbe seguito ovunque, se glielo avesse permesso.

Arrivò finalmente il giorno in cui Antelamo, con figli e nipoti, spuntò dalla parte di Nizolasco e incontrò Frà Johannes: come due amici si abbracciarono e cominciarono a raccontarsi quanto avevano fatto nel frattempo. Poi passarono a visitare i siti: sorgenti, possibili cave per pietre, boschi da cui trarre il legname per le fornaci da calce o le tavole per la carpenteria. Antelamo portò anche la notizia che l’abate di San Michele della Chiusa gli aveva commissionata una campana per la nuova chiesa e lui per questo si era portato l’amico Ihonas, abile artigiano del bronzo. Frà Johannes ringraziò il Cielo per la fortuna capitata e notò subito il mulo carico delle verghe di metallo: forse si poteva sperare anche in una croce ...

I due artefici della futura chiesa di San Michele di Campolungo iniziarono i sopralluoghi e cominciarono a preparare i materiali necessari: la maggior parte dei lavori dovevano avvenire tra la primavera e metà autunno, poi si dovevano sospendere perché il freddo avrebbe danneggiato la calce appena gettata. Fu preparata innanzitutto quest’ultima, utilizzando alcune fornaci; si segarano gli alberi per tavole e pali, si cavarono le pietre e si assoldarono alcuni braccianti. L’attività divenne sempre più frenetica e Obertus non comprendeva perché si aspettava a iniziare la costruzione vera e propria: Frà Johannes aveva detto che sarebbe successo “quando il Cielo sarà pronto” e si era dilungato in spiegazioni troppo difficili. Comunque iniziarono ogni giorno a misurare l’ombra lasciata da un paletto nel momento in cui il sole era più in alto e Obertus si accorse che man mano questa diventava della stessa lunghezza del bastone: quel giorno Frà Johannes si permise anche di scherzare con Obertus e gli disse che in futuro avrebbe anche lui costruito una cattedrale. Stabilito che quella era la data in cui il giorno e la notte si equivalevano, passarono ad osservare la Luna per capire quando ci sarebbe stato il plenilunio. Questo si verificò un mese dopo, in una notte limpida e chiara, quando Antelamo, il monaco e Obertus si recarono nel villaggio intorno a Santo Stefano per vedere se l’insegnamento dell’innesto degli alberi da frutto era stato recepito dagli abitanti. Frà Johannes, ormai tranquillo e sicuro dei movimenti del Cielo, annunciò che la domenica successiva avrebbero cominciato la fondazione della chiesa prima del sorgere del sole. Il nostro amico quasi non dormì in quelle poche notti, ma stette ad osservare gli infiniti astri che lo facevano sentire piccolo e inutile: quella stella che non si spostava mai e che lui vedeva verso Priarolo sarà stata parte del progetto di Frà Johannes?

Finalmente, la mattina prescelta, un debole chiarore apparve dietro ai monti della riva destra di Screia: non si vedevano ancora fumi e luci perché il coprifuoco durava fino all’alba. Ma Obertus immaginava quello che succedeva nella capanna della sua famiglia con i galli che iniziavano a cantare e i primi abitanti che uscivano lentamente uno a uno rabbrividendo nell’aria mattutina. Nessuno di loro era cosciente, neanche prete Tonsus nonostante i suoi studi a Dertona, né poteva immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco. La vita sarebbe continuata tra fatiche e dolori con il piccolo cimitero dietro a Santo Stefano che attendeva gli abitanti, con le impossibili cure di una vecchia sdentata che curava il malocchio, le rosipole e i vermi. Gli escrementi degli uomini si sarebbero sommati a quelli dei loro animali fino a che il sogno del monaco non si fosse avverato spostando gli abitanti a Campolungo in abitazioni degne di questo nome.

Guardò il cielo: era ora di andare e si precipitò giù per la via Chostumia fino all’area che Antelamo aveva preparato verso il fiume e adiacente a questa. Il limite a occidente della nuova chiesa sarebbe stato proprio il ciglio dell’antica strada. Vide Frà Johannes assorto in preghiera con la faccia verso oriente e Antelamo che piantava in terra, con i suoi aiutanti, un sottile palo dell’altezza di un uomo.

Il silenzio era irreale, tutti fissavano le zolle e pregavano, ma solo uno poteva sapere veramente il perché: ma egli taceva e si udiva dalle sue labbra una cantilena di giaculatorie che onoravano Dio. La luce sembrava essersi fermata, veli di nebbia si alzavano tra loro e i monti, a volte nascondendoli a volte no, qualche nube occupava lembi di cielo spostandosi di minuto in minuto, lasciando liberi pochi spazi che cominciarono ad assumere colori diversi. Mentre una strana eccitazione coglieva Obertus, consapevole a quel punto, che proprio le nuvole potevano essere un ostacolo al disegno di Johannes, egli per calmarsi iniziò a dire le poche preghiere che conosceva. L’immobilità era assoluta, un cane si era accucciato vicino al monaco che non mostrava nessun segno di impazienza e continuava le sue lodi. Aveva gli occhi chiusi e le mani congiunte, i piedi erano scalzi nella rugiada del mattino: sembrava più alto del solito con quel semplice abito ruvido cinto da una corda sui fianchi. Per l’occasione aveva voluto che i suoi aiutanti fossero vestiti con gli abiti migliori e aveva promesso, se tutto andava bene, una colazione con pane bianco, noci e una specie di birra. Obertus ebbe paura che quella mattina il tempo o qualcosa di inaspettato facesse naufragare tutti i progetti di Frà Johannes. 

Campolungo era degno di una chiesa simile? Il Cielo era veramente pronto? Avrebbero dovuto aspettare una nuova primavera per cominciare i lavori? Come avrebbero saputo che tutto andava bene? 

Improvvisamente il sole fece la comparsa dietro il Monte Gazzo illuminando la valle quasi con prepotenza e il mastro muratore si precipitò subito a piantare un’altra asta lungo l’ombra della prima per fissare l’asse della chiesa. 

Era il 23 aprile 1139, Pasqua di Resurrezione e Obertus Buculellus de Campolungo cominciò a capire le teorie di Johannes