GIOCHI ESTIVI di Sergio Pedemonte

Soprattutto nelle prime sere d’estate, la Piazza del Municipio e la strada vecchia diventavano teatro di tanti giochi. La Casa Littoria , enorme scheletro incompiuto di calcare e mattoni, era il rifugio non solo dei gatti, ma delle nostre scorribande giovanili.

Subito dopo la novena della Madonna, quando le lampadine non erano ancora accese e un tardivo sole illuminava e faceva risaltare la Cagnola, "Castelletto bruscia" monopolizzava grandi e meno grandi. A seconda dei partecipanti (non credo di esagerare elevando il numero a 40-50 in certe sere), ci si divideva in due squadre: chi cercava (7-8 persone) e chi scappava (tutti gli altri); una volta stabilita in base all’età, ai vincoli di amicizia e alla prestanza fisica questa divisione, la squadra cercante si riuniva attorno al Monumento ai Caduti ed aspettava che gli altri corressero a nascondersi.

Ma descriviamo un po’ meglio l’ambiente: la parte superiore della Piazza non aveva gli attuali ornamenti architettonici ed era in terra battuta e ghiaia: a pochi passi dalla sede CRI una pompa a mano dava un’acqua freschissima, che però sapeva di ferro e proveniva da un sottostante pozzo, resto del giardino prospiciente il palazzotto seicentesco.

Il Monumento era circondato da una ringhiera con cancelletto colorata di nero il cui scopo era difendere alcuni asfittici alberelli.

La Casa Littoria, era divisa in due corpi: uno parallelo a Via Postumia con il “ballo” in mattonelle rosse e, sotto, locali per gli attrezzi di manutenzione comunale; l’altro abbozzato con tanti muretti che avrebbero dovuto sostenere il pavimento. Oggi la prima parte ospita il Municipio e la seconda la Caserma dei Carabinieri. Intorno e dentro c’erano spine, acacie e liane.

Dalla Via Postumia vi si accedeva per uno stretto viottolo che costeggiava “la villa” e mi ricordo una terra rossa e scivolosa se bagnata (a taera gnera) e un profumo che non ho più sentito di fiori selvatici, di scarpe da tennis nuove (quelle bianche e celesti) e di veghissi accesi.

Ogni tanto una madre, la Maria, la Vera, a Scià Anna gridavano qualcosa all’indirizzo di qualcuno.

Sull’attuale Piazza Vittorio Veneto, tra i tigli, alcune panchine verdi sostituivano qualunque sede sociale, culturale o politica: anche se al mattino era ben difficile vederle occupate, e al pomeriggio servivano solo a qualche mamma, alla sera tutti noi ragazzi ci riunivamo là.

Chi girava in bicicletta tra gli alberi e le panchine della piazza finiva sempre per scontrare o gli uni o le altre, ma il record di acqua ossigenata e sberle penso lo detenga ancora Ginetto, il figlio della signora Leale: vestito con pantaloni di cuoio alla tirolese aveva uno zio con tanto di stendardo e stemma Savoia per le grandi occasioni.

Le ricerche in campo naturalistico consistevano nel catturare mosche e grilli da inserire nelle ragnatele che si formavano sulle pareti della strada vecchia: quella adiacente alla villa, si ricopriva di parietaria officinalis o scanigea, un’erba leggermente urticante che serve ancora oggi per lavare le bottiglie, qualcuno sosteneva fosse anche diuretica; insieme all’ortica e al papavero è la pianta che popola i miei ricordi: oggi occorre andare sempre più lontano dalle case per trovarla.

Ma ritorniamo al castellettu: nascostisi i fuggitivi, iniziava il gioco. I cercatori gridavano:

"Castellettu bruxia in simma de na pruscia, a pruscia a lè bruscià a castellettu a lè restà”.

A Giretta si diceva: “Castellettu sciallu scià, chi l’è foa vegni a ciappà”. Paese e generazione che vai, ritornello che trovi. A Prarolo d’altronde lo stesso gioco era chiamato a loa.

Chi veniva catturato (cioè toccato) era condotto al Monumento e insieme ad altri sventurati formava una riga che con poderosi calci teneva lontano le guardie.

I compagni dovevano con furbizia e velocità riuscire a toccare a loro volta la catena liberando tutti ed allora echeggiava il grido: “Liberi tutti!”.

Non mi ricordo che una partita sia stata vinta da qualcuno, si finiva perché il buio impediva di continuare e, completamente sudati, si andava alla fontana vicino all’ARCI, allora falegnameria di Nitto, dove immancabilmente chi arrivava prima al rubinetto bagnava tutti. I più fortunati, cioè quelli che non avevano madri ossessionate da scuole e rapitori, confabulavano ancora un po’ ricordando o inventando storie di fantasmi o, meglio, di spiriti.

I nascondigli da castellettu erano diversi a seconda che fosse buio o no. I più coraggiosi andavano in quella che si chiamava a suddica, tra via Roma e Via Postumia, vicino alla lavanderia. Oppure nel ritale che va a Montemoro, nella villa del Barbarossa, nel portico di Medeo , che se durante il giorno era nostro alleato come venditore di ammennicoli ciclistici, di sera andava su tutte le furie per il rumore che facevamo.

Ho fatto tutte queste divagazioni perché pensare al nostro gioco preferito è inscindibile da tante altre sensazioni, come gli odori, i posti, alcuni personaggi, (e aggiungerei Amabene Gesualdo, il dott. Cilli, il maestro Strata) ma ho la tentazione di concludere in poesia, così descrivendo Isola:

E’ un paese senza ombre lunghe il mio

dove l’acqua si trascina millenni

per creare spazio tutt’attorno;

e basta una nuvola sola per coprirne il cielo

mentre i tetti e la gente la toccano.

Eppure, nelle tranquille sere di maggio

la prima erba tagliata è odorosa

e ti aumenta la voglia di viverci