"PIU' FORTE DEL CEMENTO" di Sergio Pedemonte

A volte osserviamo uno scalino, a volte camminiamo su un solaio, ma mai ci chiediamo come è nato quel materiale che lo compone, che lo rende duro come la pietra. 

Con Punni di Alpe invece, se ti sedevi sulla panca con le spalle al muro di casa sua, in una serata estiva quando si guardavano le stelle e iniziavano i ceti, non potevi non chiedergli ad un certo punto: 

“Ma è vero che secondo te la calce di una volta era migliore del cemento di oggi?”. 

Tutti sapevano in paese di questa sua teoria e tutti, pur rispettandolo e apprezzandolo come muratore e carpentiere, tendevano a farla diventare un tormentone da tempo perso.

Suo nipote, che studiava da geometra, stava zitto anche se non credeva neanche all’influenza della luna sull’imbottigliamento del vino e lasciava che Punni si arrotolasse una sigaretta e iniziasse a parlare:

“Mio padre mi diceva che intorno al ‘13 o ‘14 (del 1900, s’intende) erano arrivati dalla Lombardia dei tecnici che lavoravano nella galleria ferroviaria di Borlasca e avevano sorriso quando gli fece vedere come otteneva la calce. 

Lui andava sempre dove erano andati suo padre e suo nonno, là alla Costa Sarvega, dove c’è uno spiazzo che sembra fatto apposta. Scavava un buco di circa 1 metro e mezzo, 2 metri di diametro e profondo altrettanto. Era proprio sul ciglio della piccola scarpata e sotto ci stava il fornello in cui metteva paglia e fascine umide. 

Prendeva dei blocchi di pietra, pria de casin-na, lì vicino, direttamente dalla parete di roccia. Sceglieva con cura perché anche a soli 100 metri di distanza lo stesso banco dava una calce meno resistente e li inseriva nel buco. Sotto a tutto c’era la ramaglia e poi venivano strati di pietre e legna de savergu fino a coprirne l’ultimo con terra bagnata. Una volta acceso il fuoco lo teneva avviato anche tre giorni e tre notti e poi lasciava raffreddare per cinque o sei fino a che la pietra diventava leggera e più chiara. A quel punto prendeva i buoi e portava la calce viva a casa. 

In un grosso recipiente la sommergeva di acqua e aspettava il momento che servisse a lui o a qualcuno della sua famiglia. Poteva passare anche un anno: l’importante era che la calce fosse sempre sott’acqua e non toccasse l’aria. Otteneva così la calce spenta che mescolata a sabbia fine o anche grossolana e, ovviamente con ancora un po’ d’acqua aggiunta, gli serviva per costruire muri e case. 

Questi tecnici gli dissero che loro in tre giorni facevano tre cotte perché usavano il carbone e quindi raggiungevano i 900 °C: lui con le sue ramaglie bagnate evidentemente non raggiungeva neanche i 6-700. Mio padre non rispose, perché non era presuntuoso, disse solo che quello che faceva andava bene per lui e che quindi non intendeva cambiare. Anch’io ho fatto calce con lo stesso metodo finché non è comparso il cemento in sacchetti. La mia calce resisteva di più, ma oggi è più comodo e veloce comprare il cemento”.

L’allievo geometra allora interveniva e spiegava che la tecnologia dei materiali contraddiceva questi ricordi: “Anche il tempo sembra che cambi. Tu, nonno, dici sempre che da giovane gli inverni erano terribili, che veniva tanta neve, che avevate i geloni alle mani. Ma non è il tempo che cambia! E’ solo che le case e i vestiti sono migliori e allora ti pare di sentire meno il freddo. Forse qualche piccolo cambiamento c’è stato, ma è una cosa naturale che fluttua negli anni e statisticamente si ripropone. E’ solo alla scala dei tempi geologici che si può ammettere un cambiamento percepibile e significativo …”.

Fortunatamente a quel punto arrivava qualcun altro di Alpe che finita la cena voleva ciccare il toscano in pace con gli amici e il discorso si spostava su altri temi: dalla scabbia bruciata alla pioggia che non arrivava, dalla qualità del fieno a seconda dell’altezza dell’erba fino alle cimici che quell’anno invadevano i pagliai.

Punni taceva, non era un contadino e i muratori si sa, hanno meno variabili incontrollabili nel loro lavoro.

Anni dopo incontrai a Genova il nipote diventato geometra. Come va, come non va, il nonno ormai è mancato, il paese è cresciuto e lui lavorava in Soprintendenza. 

“Sarai contento” gli dico. “Certo” risponde “ma ho un rammarico che solo tu puoi capire”.

E mi spiegò che negli anni ’80 aveva partecipato al restauro del Palazzo Ducale ed ai lavori al Porto Vecchio. Insieme ad altri, guidati da un giovane professore universitario, tale Ercolani , aveva dovuto constatare che la calce usata per i moli antichi resisteva all’azione del mare meglio delle stesse pietre in essa inglobate. Strati di 20 centimetri di calce erano ancora intatti dopo secoli. 

Infervorato e spinto dalla mia curiosità mi disse anche che queste calci venivano cotte a Sestri Ponente alle pendici del Monte Gazzo e il materiale di partenza era la dolomia che ancora oggi è sfruttata. Ma la calce odierna non ha la qualità e la resistenza di quella antica. Una studentessa aveva provato a rifarla cambiando alcune cose (e qui cominciavo a perdermi perché non sono un ingegnere) come la temperatura di cottura che influenza la pressione di CO2, l’umidità presente eccetera eccetera. 

Insomma la morale era che i vecchi, come suo nonno Punni, inconsapevolmente avevano trovato il metodo giusto: riuscivano ad ottenere una struttura a grana fine che la calce cotta a 900 °C non ha. 

Nel restauro del Palazzo Ducale invece avevano scoperto un intonaco di marmorino di calce pura spesso circa 1 o 2 millimetri che per rifarlo avevano dovuto cercare due famiglie che ormai da anni non lavoravano più ma conoscevano questi segreti.

Era poi ritornato con un geologo al sito dove Punni raccoglieva le pietre da cuocere ed aveva così saputo che quello strato era il più calcareo dei dintorni, con una quantità di argilla giusta per ottenere la calce selvatica, quella che si assomiglia di più alle calci idrauliche. Quelle rocce erano il cosiddetto Flysch dell’Antola di cui erano fatti i monti di Alpe e dei paesi vicini della Valle Scrivia da Torriglia e Montoggio fino a Isola; flysch significava per i geologi “caotico” perché era difficile che uno strato fosse uguale all’altro sia nello spessore che nella composizione mineralogica, cioè nelle quantità di carbonato di calcio e argilla. Trovare il livello con una percentuale di argilla tra il 5 ed il 10%, senza gli strumenti odierni, era lavoro da veri esperti, cioè “di coloro che dell’esperienza fanno tesoro”, aveva detto l’anziano geologo.

Viveva quindi con il rimorso di aver snobbato il nonno, di non aver riconosciuto in quelle sue parole una saggezza atavica che non era solo tecnica ma anche morale. 

Poco prima di incontrarlo avevo comprato un piccolo libro in cui, sfogliandolo, mi erano capitate sotto gli occhi due frasi:

“... Da quando la ragione ha dato agli uomini la coscienza di essere loro i padroni del mondo, si sono divisi in due gruppi: quelli che vogliono trasformarlo continuamente, convinti di migliorarlo, e quelli che si sentono responsabili di conservarlo, convinti di salvarlo ...”.

“... Non si può salvare il mondo se non si salva l'uomo, ma è impossibile salvare l'uomo senza salvare il mondo ...” .

Glielo regalai sperando di convincerlo che altri personaggi più famosi e importanti, di me e di lui, avevano avuto momenti di scetticismo o buchi neri della ragione ma che poi, si spera, si erano ravveduti. 

Anche se troppo tardi per gli affetti familiari.